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STILE ARTE – OTTOBRE 2003 -PIOVANELLI, GLI ALFABETI DELLA FELICITA’- L’artista camuno canta universi di bagliori sereni, come in un mondo post-matissiano che rifiuta di considerare la vita esclusivo teatro di un dramma di Bernardelli Curuz Tra tante flagellazioni, tra le crudezze espressioniste, tra i pittori in gramaglie,Giuseppe Piovanelli, à rebours, offre un inesausto seminario sulla felicità, come se Matisse fosse passato al tritacarne di Dubuffet, e le poche notti placide di Van Gogh, quelle scarsi notte distese, incollate al cuore di Parigi col calore espanso della luce e un senso di primavera nell’aria, discendessero sul cuore del Sebino. Credo che vi siano pochi pittori che, controcorrente-appunto- siano capaci di distribuire, tra tele e fruitori, questo senso vivido di felicità, questo supremo scodinzolio di colori, d’elevazioni, questa euforia, questo ribollire di luce festiva e di aeree presenze che si affacciano al cielo come insetti fatati, angeli, nubi pulviscolari che traversano il quadro e giunti all’apice del paesaggio elargiscono felicità su moderni presepi, su notti porporine, che inviano a lontane infanzie ricche della benedizione lieve della luce. In breve: Piovanelli dipinge panorami fuori linea. Siamo nei sogni di una leggerezza proibita e certo, all’origine di tutto ciò, sta una visione che si colloca tra la frammentazione della materia pittorica, di matrice divisionista – le cui accelerazioni avrebbero portato alla nascita del Futurismo pittorico – e Matisse, il grande artista che avrebbe cercato di deviare le sorti di un mondo grigio – e così plumbeo da diventare acciaio di cannone – attraverso la più compressa e spumeggiante cromoterapia mai sperimentata, Piovanelli, ripercorrendo quel solco – o meglio sarebbe dire “rotta”, trattandosi di più aerea tratta -, giunge alla pittura come proclamazione del diritto della felicità. Ora di fronte a questi laghi dipinti che nascono da un ripensamento assolutamente non banale della pittura matissiana si squarcia all’improvviso il contesto festoso, s’eternano gli attimi irripetibili, in cui la natura – e il corredo luministico più ricco – si compiace di offrirsi alla contemplazione. Dopo un esordio contrassegnato, come in un sogno alla Pedrali, da un Chiarismo già comunque caratterizzato dalla necessità urgente del colore, e un confronto con il paesaggio astratto – che rinvia, per certi aspetti, ad una attenta rielaborazione dei modelli morlottiani – Piovanelli libera la propria mano in una pittura frenetica, non estranea a un confronto con l’espressionismo astratto, in cui gli elementi cromatici di matrice matissiana – in una dovizia di interpretazioni e tratti ed archi azzurri, arancioni, gialli e verdi – assecondano il guizzo e il moto curvilineo attraverso una grafia di rapido corsivo che delinea le parti del paesaggio. Successivamente , negli anni Novanta, l’artista estrae motivi tribali dal pulviscolo luminoso, ma chiude con rapidità questa citazione, per approdare, attorno al 1994, agli oli in cui la presenza frenetica della luce ritaglia il momento irripetibile in cui l’uomo sfiora il cielo. E la sensazione ascensionale di felicità, attraverso l’aggraziato movimento, il barbaglio, la luce, il riflesso di vetro improvviso, ricorda quella provocata dalle onde del Garda di Catullo, frammiste a piccole risa, nella casa dell’eterno ritorno. |
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