di Giannetto Valzelli


Come quando si arriva a un belvedere e l'occhio pascola beato sull'infinito leooardiano. Allora accade
che umori, emozioni, sentimentienti planano nello spazio e nel tempo che sono dentro di noi e del falco
pellegrino sospeso nella mirabolante dolcezza delle sue giravolte abbiamo il dono di esplorare, intendere, carpire quel che – per passare diletto - ci da giovamento, letizia, impulso. Così è di certi approdi che dalla materia trapassano allo spirito, per ispirazione o contemplazione si convertono in
atmosfere o miraggi, mutano la realtà in visione. Chiamiamo arte il fenomeno che, coinvolgendo i
nostri sensi muta il consueto panorama in fata morgana, sul dato di fatto fa fiorire il paese dell'anima: è prerogativa non solo delle avanguardie (basta volgersi indietro a guardare Giotto, Raffaello, Leonardo, Michelangelo) è innato in chi non vuole essere pedissequo. Certo occorrono attitudine, talento, vocazione. Qualcuno dice che è bernoccolo. Ma gli si accompagnano pur sempre la voglia, la
ricerca del far meglio, e sulla sedimentazione l'ardenza del nuovo che fruttifica. Come comporta,
per l'appunto - da antologica - questa mostra che comprende un trentennio di lavoro, 1967/1997,
firmato con orgoglio da Giuseppe Piovanelli, un camuno cinquantenne, anima e corpo addentro alla
scuola ma non domo ne fiaccato dalle incongruenze d'altri, pizzetto pepe-e-sale, e un bel dire pane
al pane e vino al vino.

L'AMICO

C'erano una volta Eurìalo e Niso, la storia che nell”'Eneide" di Virgilio assurge a emblema dell'inseparabilità, concordanza proverbiale della giovinezza, elogio di comparazione sulla stessa morte. La leggenda va rapportata in vitalità lì davanti al cavalletto, l'incontro si concretizza nella espressione più alta dell'amicizia, che altro nome non ha se non quello della emulazione. Sullo sfondo c'è il lago che a Pisogne si slarga (dove il più bresciano dei frescanti dava di voce ai pescatori e ai
boscaioli, e l'invito si è splendidamente incarnato sui muri di Santa Maria della Neve) e, nell'eco di tanta bravura, vengono avanti verso di noi - schietti, di prima barba, forti del loro entusiasmo - i due protagonisti della vicenda pittorica avviata sul fare degli anni Settanta. L'uno è il menzionato Giuseppe
Piovanelli, fresco di naja e degli studi all'Accademia di Brera, occhialuto indagatore dei venti che tirano fuori dalla casa patriarcale (sono dieci, se si contano, tra fratelli e sorelle) e a suo modo voglioso di spiccare il volo. L'altro è un soggetto già di per sé navigato, con diploma alla pari di attinenza artistica e un bel vagabondare per musei d'oltralpe, ma anche qualcosa di ariosamente "bohémien" - la cravatta sulla camicia candida e le bretelle, sandali ai piedi - a rimarcare una biondezza di gitano inquieto e generoso, socialmente impegnato, con un nome di qualche fascino: Amleto Romele. C'è il destino, e dell'altro, a mettere insieme Piovanelli e Romele. Fanno la stessa strada, sembra che abbiano di passo
la stessa cadenza. Capita che una mano tira l'altra, Romele comincia e Piovanelli prosegue, o viceversa, sulla stessa tela l'opera si enuclea, si sviluppa, si compie. Chiamatela come volete: assonanza, coesione, affinità. Guardano fuori, dalla finestra della bicocca-studio dove si sono aggiustati in quel di
Gratacasolo, le correlazioni che s'intrecciano fra stagioni e stati d'animo, spazi e suggerimenti, infiorescenze e sedimentazioni, cesure e riagganci di ritmi. Dipingere equivale a scrivere, dipanare il gomitolo di pensieri e suggestioni che hai ravvolto in te stesso, l'invito è nella pagina bianca come nel sostrato di vernice che ti offre il quadro. Le idee si inseguono, gli spunti si amalgamano, le connessioni si assorbono. Ma mirano ad un loro intimo intento - sia ben chiaro - i nostri due soci. Sono come due api che suggono nettare, e la distillazione avviene nel miele per un apporto e per l'altro, si sostanzia
reciprocamente in travaso. Il segno grafico in Romele è risoluto, ha l'aguzza linearità dell'incisione e la manterrà così seccamente netta fino alla precoce dipartita (nell'apparizione dei rostri al capezzale) e la sua irruenza cromatica dissipa le patine adombrate degli esordi in Piovanelli, finisce per convertire la stessa pacatezza del tratto in guizzante essenzialità. Avviene che la simbiosi ingenera in entrambi la
maturazione del divario. Inavvertitamente la comunanza sollecita la distinzione. Quel che congiuntamente attingono dal lago, la solarità di campitura azzurre e arancio, e lo scompartimento stesso della rappresentazione (il taglio dell'orizzonte alzato per evidenziare la bidimensionalità,
ampliare il gioco della pittura) li porta al raffronto con la montagna, li induce alla contemplazione e all'analisi di luci colori combinazioni, li dirotta nell'assunzione caratterizzante delle proprie tendenze. La ricerca investe, oltre l'affinamento tonale, l'uso della forma segnica e ha il suo punto esplicito di
germinazione fra terra e acque, nella linea di flusso sorgivo dove la Valle Camonica inclina le sue quinte rupestri alla sinuosità romantica del Sebino.
Ci sono nomi e luoghi, apparentemente insignificanti, che invece insorgono a rivelare lo stacco di Piovanelli dal compagno di viaggio, la sua ventura di sperimentazione e di conquista. Quel che l'amico Amleto gli ha ineffabilmente donato, nella vena espressionistica del Romanino, diverrà proiezione di memoria nell'anelito creativo. La Sparviera viene a ghermire il vigore di Romele, ma sulle rive della vita resta chi con lui ha tracciato a gara frammenti del mondo dei sogni in cui si rigenera l'arte. Piovanelli nel 1972 firma Canneti al lago e nel '76 Stagno del fiume Oglio. È come se aderisse al greto per avvertire in sé l'incombere della luce, lo sposalizio del ciclo e della montagna con la trasparenza del lago. Due sensi, due brezze alitano nel midollo dei pastelli, nel getto dell'esecuzione, nel prodigio verde della linfa. Vince il "premio Costa Volpino". C'è ancora l'amico a far festa, il cuore s'inonda del suo tripudio.

IL POETA

Ci sono schizzi, lampi, fremiti in pittura che prendono rilevanza di simboli: valga, per tutti, l'albero di Mondrian che si spoglia e cristallizza nella nudità geometrica dell'astrazione. Ci si libera del segno per arrivare a un'altra scrittura che non si innerva se non di tocchi, bocci, germogli: è fronda in esplosione nell'aria, scaturigine d'immagini che frullano. Lo stacco di Piovanelli si legge in Porticciolo a Pisogne, nel volo del colore in grazia della fantasia e nel suo battito fremente di chiarismo: la stessa ventata di brio che impregna Primavera camuna, nell'uscir fuori dallo schema consueto del quadro, portare l'orizzonte all'altezza della montagna, dalla linea piatta ascendere al verticalismo e sui crinali vergare d'impeto le tensioni della mente.
Della sua matassa cromatica così pura e fervida, intensa i verdi, il rosa dei petali, l'azzurro che sfuma nel glauco e nel celeste - l'artista s'incapriccia, si estasia, si esalta: ci fa correre dentro il filo d'oro della serenità che fa mulinello fra terra acqua cielo, ed è forsanche la componente adeguata alla stesura delle sue biacche preparate col gesso di Bologna, collante il latte, subito asciutto per l'urgenza dell'uso. Di quella casta e sobria materia s'impasta la sua tavolozza, si ravviva il suo
desiderio, si costruisce la sua poesia. E a comporre i suoi versi sono fiocchi, corolle, riccioli (coriandoli, diceva l'arguto Spiazzi) i segni memorizzati dalla realtà ma trasfusi per estro su tela e su carta e su compensato, rapidamente, all'interno dell’opera.
Tema dominante, in Piovanelli, il paesaggio accestisce e si rinnova per miracolo di stagioni che brulicano, rigogli e gibigianne che affascinano, incanti trasposti dalla natura nelle vaghezze dello spirito. Può darsi che talvolta la figurazione riemerga dagli intrichi verzicanti, dai boschi del sogno, ma è retaggio evanescente di simboli, eco di idilii mitologici, laccio
di misteri e illusioni: gioco di amorini, ombra di Venere, ali di colombe. O che i riflessi del lago si appiccino in uno strascico di stelle per i cieli di Natale. Ma quel che si raggruma di splendore questa pittura (che a qualcuno ha ricordato la nervatura lombardo Morlotti) è succo che trascende l'informale,
trapassa in sostanza di lirica effusione, sguardo e penetrazione gioia di vivere. Piovanelli si concede il godimento di far vortice d'impressioni e sensazioni. Ce ne assembra un dono che è sortilegio -oggettività e magia - specchio di "natura morta”. E in siffatta fusione, come non scorgere certe aeree
radiosità tipiche del Tiepoio?

IL FILOSOFO

I cicli dell'ambizione stilistica di Piovanelli sono intervallati da esigenze di sintesi, riflessioni, suture. Alle fascinazioni poetiche si frappongono i raffronti, si alternano le ragioni di forma e contenuto, susseguono i dubbi, le tentazioni, gli allettamenti. Esiste, in pittura, una filosofia del rimugino che porta in pratica
alla trasgressione della spontaneità per poi indurre di sollievo al riscatto. Riesce spaesata - confessa l'artista - la sirena dell'Isola dei Morti di Bòckiin trasposta nella cornice del Sebino che è dolcezza (di elegia) ma non tristezza, e i fuochi fatui non si addicono al lago celebrato da Lady Montagu, le tenere accensioni nel gorgo di smalto verdeblu rischiano di deflagrare in un falò di luminarie.
Piovanelli dispone della sua caverna di idee e magari vi si attarda per diletto a speculare. L'uomo contemporaneo, che il tubo catodico della televisione relega nel villaggio globale della ripetitività, non vede più niente, si autocancella in un paesaggio stereotipato. E allora, a risbaldirlo, scuoterlo, riani-marlo, può sopperire lo schermo escogitato dal pittore nel riquadro stesso su cui lavora, la proiezione-shock che equipara lo svago del caleidoscopio. Sarà una Montisola vista ai raggi infrarossi, passata per smembri e coaguli attraverso quattro soli colori: il cielo arancione, le montagne rosse e blu, il lago verde. Oppure - ricerca vera e propria, nel ricupero della spiritualità - Santa Maria della Neve, la cappella sistina del Romanino, centrata da una duplice angolazione: quella metafisica, ne materiale ne ascetica, eretta mattone su mattone nella sua fase storica, alla Piero della Francesca, e quella ancestrale, nella sua struttura materica e integrità di salvezza del gregge obbediente al pastore.
Ma, infine, c'è anche un Piovanelli di merito che - laddove arrampicatori o esibizionisti credono di essersi
sprovincializzati per aver messo piede fuori della valle a combinare, in nome dell'arte, nient'altro che plagi - dimostra di restare legato per l'ombelico alla sua Camunia. Lo dice, con gesti di vanto tradotti in metafore, un modo di riappropriarsi del paesaggio per viverlo in devozione e passione etica, ripercorrendo storia leggende tradizioni, inscenando figure ieratiche, muovendo una ridda antropomorfa e zoomorfa di spiritata gagliardia. Si guardino i semi o reperti de La grande roccia, lo spasimo cristocentrico di Maternità, il ganglio di saga sociale scatenato nei Pitoti.
Pittura come rivisitazione dell'essere, dai precordi.