UNO SCHIAFFO ALL’ARTE

Di Antonia Abbattista Finocchiaro

 

Ad avere la pazienza di stare ad ascoltarlo, mentre racconta della sua famiglia e dei suoi boschi, a riuscire a farsi accogliere nel suo mondo di affetti autentici e di legami robusti, un dato emerge incontrovertibile: non lui ha scelto di diventare artista, ma la pittura lo ha chiamato a sé.

Lo ha toccato fin da piccolo con il dono ineffabile del talento naturale, e lo ha inseguito, accompagnato, sollecitato in tutto il suo percorso di studi  e di progressiva assunzione di consapevolezza di sé e del suo dipingere. Fin da quando, bambino di quinta elementare, si becca un solenne ceffone dal suo maestro (allora si usava così…) perché invece di seguire la lezione stava ricopiando da una cartolina il disegno di due rose intrecciate. Salvo poi dover spiegare all’uomo incredulo che sì, il disegno lo aveva fatto  lui, proprio lì, nel giro di pochi minuti, a mano libera, anche se era identico all’originale.

Comincia così la lunga strada di un uomo che ha dovuto sempre fare i conti con questo dono: non una passione senza freni e senza regole, come in una certa agiografia artistica ormai trita. Piuttosto un silenzioso compagno, una inevitabile presenza che lo ha indotto a riprendere gli studi artistici dopo il militare e il matrimonio, che lo ha fatto ritrovare iscritto a Brera quando aveva già vinto concorsi e premi, che lo addita artista maturo anche quando molto umilmente egli ritiene di dover ancora e ancora studiare.

Che gli apre, ancora giovanissimo, la strada delle “estemporanee”: i concorsi di pittura en plain air in cui in poche ore si doveva seduta stante realizzare un dipinto su un tema appena dichiarato.  Una pratica artistica che – così raccontata – sembra l’esito di qualche sagra di paese, ma che in realtà va letta come uno degli ultimi esempi di produzione artistica basata sulla professionalità e sull’artigianalità dell’arte. Probabilmente oggi potrebbe diventare il format di qualche talent show televisivo, ma fino a trent’anni fa era soprattutto il territorio del talento e della velocità, due qualità tutt’altro che sconosciute nella storia dell’arte. “Velocissimo” era il carattere universalmente riconosciuto di Asclepiodoro, pittore ateniese del IV secolo a.C., il bizzarro Amico Aspertini era non solo molto veloce ma ambidestro, e dunque dipingeva con le due mani contemporaneamente, mentre il soprannome di Luca Giordano era “Lucafapresto”, proprio perché riusciva a realizzare grandi pale d’altare in un solo giorno: artisti la cui grandezza non è in discussione, nonostante queste loro qualità di velocità e di talento.

Ma Giuseppe Piovanelli è riuscito ad andare oltre le sue doti naturali, e per capirlo non è necessario conoscere i deliziosi e divertenti episodi legati ai suoi studi da “adulto” fra i giovani, non serve farsi raccontare le sue preferenze artistiche o le sue affezioni fra gli artisti del passato: basta osservare le sue opere.

La sua partenza risale agli Anni Sessanta  quando – neanche diciottenne – realizza i primi paesaggi di atmosfera chiarista e di struttura cézanniana. Si tratta di immagini in cui si intrecciano con grande serenità componenti naturali – colline, boschi, acque – e vissuto architettonico – case, tetti, torri, borghi – come parti di un’unica dimensione da vivere. La scomposizione della realtà, quasi da cubismo analitico, risente di una sensibilità formatasi sulle immagini delle avanguardie storiche dell’Ottocento, e sulla amicizia collaborativa con Amleto Romele (Pisogne 1940-1975), indimenticato poeta della Valle Camonica e del lago d’Iseo, autore di una figurazione dolce e nostalgica che ha come interpreti privilegiati i pescatori e la povera gente delle sue contrade. Con lui ha condiviso l’avventura artistica e l’atelier, in un sodalizio leale e amicale,  tanto intenso al punto di scambiarsi pennellate reciprocamente sulle tele in elaborazione sul cavalletto, in una silenziosa e intima contiguità venuta meno troppo presto in seguito alla precoce scomparsa dell’amico.

A lui, il Piovanelli ritiene di dovere soprattutto l’atmosfera dolce e il cromatismo schiarito di quegli anni: a noi pare che quella modalità esecutiva sia parte integrante della sua personale storia compositiva, poiché come si vedrà tornerà più avanti nel tempo sia nella organizzazione strutturale che nella modalità cromatica. In quegli anni le colline, il fiume e i casolari della sua terra la fanno da padrone in queste opere che sembrano segnate da una profondo senso panico della realtà, una sorta di immersione carnale nel contesto ambientale fatto di storia e di natura che caratterizzerà tutta la produzione dell’artista. Di più: in opere come Solato dallo studio (1969) o Seduta (1977) il pittore analizza il rapporto esterno-interno, producendo sguardi di estrema suggestione e atmosfere che sembrano provenire  dalle emozioni di un Pierre Bonnard o di qualche Nabis trasferito in Val Camonica. E a spulciare ben bene in quegli anni - che sono stati di riflessione e di studio - ecco comparire una autentica citazione da Piero della Francesca e dal suo Battesimo di Cristo in Crescere (1979), dove la curva della figura centrale chinata sul bambino e la solennità della donna in piedi al centro dell’immagine tradiscono un amore, poi apertamente dichiarato, per quel grande del Rinascimento.

Questo linguaggio esecutivo pervade ancora gli Anni Settanta, quando però una nuova funzione comunicativa  attira l’attenzione del Piovanelli, il quale riconduce il gesto pittorico a segno significante e fatalmente comincia a rasentare l’astrazione.

Le sue opere continuano ad alludere a paesaggi e figure nei titoli, ma dichiarano un interesse specificatamente compositivo per una pittura fatta soprattutto di grammatica strutturale e cromatica. Il segno pittorico diventa protagonista e traduce le emozioni spesso senza più alcuna mediazione imitativa della realtà, come in Rosso, Verde e Blu (tutte del 1983) o nelle numerose Presenze (del 1984). Nella sua personale narrazione di sé, secondo Piovanelli è l’opera A Ponte di Legno (1984) a segnare la svolta più profonda. Lì a parlare è un intrico di segni cromatici e strutturali che sorreggono una nuova visione della realtà, più dinamica e tecnicamente aggiornata, che però non può dimenticare il fardello del passato millenario di quei luoghi e degli uomini che ci vivono. I segni degli antichi Camuni, spesso presenti qua e là anche in passato, ora diventano cifra connotativa e timbro essenziale della rappresentazione.

Seguono negli Anni Novanta autentiche sperimentazioni: sono le meravigliose Astrazioni cromatiche, rigorosissime immagini quintessenziate dello spazio naturale, ricondotte a forme di colore e di luce. Anche le tecniche si adeguano a questa fase innovativa: il pittore inventa l’olio su carta, che lascia chiare tracce della pennellata, o lavora con cere e pastelli, in immagini dal ritmo veloce e dal sapore di fermo-immagine fotografico. Si cimenta persino in una sorta di scrittura segnica automatica, nel tentativo evidente di connettere il segno grafico con la percezione visiva. Ne consegue una produzione variegata ed inedita in cui con tutta evidenza sono l’occhio e la mano a dettare i criteri compositivi. Basti osservare le numerose repliche di Santa Maria della Neve (1993),  la chiesina affrescata dal Romanino, riprodotta in diversificate situazioni di luce e di colore, come lo scorcio della Cattedrale di Rouen di Monet.

Nei decenni successivi, fino allo scorcio del nuovo millennio, un dinamismo energico e una grinta insospettata animano le opere, che sembrano improntate quasi ad un lirismo astratto alla Birolli: il segno insegue il segno, il colore innerva il gesto, la composizione si sparge su tutta la tela occupandone ogni millimetro ed è pronta ad  oltrepassarne i confini, come in un movimento centrifugo. Così in Paesaggio rosso (1995) e in Promontorio (2000) o nello straordinario Paesaggio (2002) tutto giocato su toni freddi ma non per questo meno appassionato, di una forza cromatica talmente aggressiva e di un senso della velocità talmente incombente da sfiorare certe produzioni americane da action painting. Naturalmente i titoli continuano ad offrire direzioni di lettura, dunque l’astrattismo non prende piede in maniera assoluta nella produzione di Piovanelli, che semplicemente ha aggiunto – nella sua vita professionale – il tema del segno significante ad un retroterra irrinunciabile fatto come sempre dei suoi monti, dei suoi boschi, delle sue acque, delle sue pietre.

Ma poiché l’artista, come il poeta, è sempre un passo avanti rispetto al resto dell’umanità, e riesce per questo sempre a sorprenderci, ecco che – in linea perfettamente attuale con i tempi – alla metà del primo decennio del secolo parte per una nuova avventura: quella verso sé. Un viaggio che prima o poi tocca a molti, e che lo porta a rimeditare interamente il suo patrimonio espressivo.

Tornano così qua e là nelle sue opere il chiarismo iniziale, ora accompagnato da un senso di inedito senso di nostalgia, ricompaiono toni più quieti e sereni (Valsaviore, 2011), trova spazio persino una nuova sia pure complessa figurazione (Alla Cascata, 2013): Giuseppe Piovanelli sta ripercorrendo la sua storia e così sta ritrovando con maggiore chiarezza la strada che conduce al luogo più profondo della sua anima.

Ne scaturiscono opere di una assoluta felicità come Terra Acqua (2014), in cui si leggono linee sinuose e colori emotivamente coinvolgenti, in una autonomia compositiva stupefacente, ma anche figurativamente nuvole che si arrovellano su una terra di fondo e su un mare d’acqua vitale e avvolgente. Sulla stessa linea, ma con un diverso coraggio cromatico, Colori e luce (2014) ritrova anche una gioia ingenua e insieme sensuale e addita forse una nuova stagione della sua produzione, esito di una forte sintesi del passato e del desiderio di innovazione che caratterizza la pittura di Giuseppe Piovanelli.